Seminario “L’Open Innovation come occasione di crescita e di incontro per i talenti del Mezzogiorno”


INTRODUZIONI


Amedeo Lepore

Docente universitario – Università di Bari, Luiss di Roma e Presidente dell’Associazione NOI
Il convegno sull’open innovation promosso del Centro Studi dell’Unione Industriali di Napoli è stata un’occasione di confronto molto significativa e, soprattutto, in anticipo sui tempi. Infatti, il tema dell’innovazione diffusa è appena approdato in Italia e nel Mezzogiorno rappresenta un’assoluta novità. E l’onda lunga proveniente d’oltreoceano ha iniziato solo ora ad irrompere nel continente europeo. Tuttavia, dopo l’incontro svoltosi a maggio scorso, l’effetto di questo primo afflusso si avverte nitidamente dalla moltiplicazione dei siti web dedicati a questo argomento e dall’attivazione straordinaria di una prima partecipazione in rete, ancora confusa e indistinta, ma dal grande valore preparatorio. Il Mezzogiorno d’Italia, come è emerso dai contributi dei relatori, si presta particolarmente a questa innovazione. Innanzitutto, perché, proprio a causa della difficoltà estrema delle sue condizioni, può essere l’avamposto europeo di un sistema inedito: se l’open innovation sfonda qui, può penetrare più facilmente nel resto del continente. Inoltre, a parte ogni considerazione di opportunità, è proprio il carattere di questa nuova metodologia e la diffusione di una logica di partecipazione alle soluzioni dei problemi dal basso, che rivoluzionano vecchie convinzioni: il Sud, con l’impiego di questo strumento, è in grado di volgere alcuni dei suoi più consolidati vincoli in inusitate possibilità per il suo futuro. In particolare, la vasta disponibilità di ingegni e creatività, soprattutto giovanili, può essere valorizzata da un sistema di collaborazione aperta in rete, contrastando l’emorragia di talenti, che impoverisce l’area meridionale di uno dei suoi maggiori capitali. Ma anche la struttura economica del Mezzogiorno, in quanto tale, può trarre vantaggio dalla sua frammentazione e dalla dimensione ridotta di gran parte delle sue imprese. Non si tratta di riscoprire l’infelice teoria del “piccolo è bello” o di annullare le responsabilità di una logica di sviluppo a livello meramente locale, che hanno condannato il Sud ad un divario sempre più accentuato rispetto al resto del Paese e alle aree più dinamiche d’Europa. La vera novità è rappresentata, al contrario, dal fatto che gli antichi freni possono diventare occasioni di impulso per lo sviluppo, grazie ad un potente sistema di aggregazione. Le imprese, anche quelle più minute, hanno la possibilità di usufruire di una nuova e conveniente – se non gratuita, in base ai principi della freeconomics – dotazione di servizi e di conoscenza, oltre che di cominciare a “fare sistema”, uscendo da una condizione di inferiorità e di isolamento, con la crescita in termini di mercato. L’innovazione diffusa si presta a contribuire al cambiamento di Napoli e del Mezzogiorno, introducendo un modello di partecipazione aperta e un processo di catalizzazione, che interessa le imprese, le istituzioni, le persone e i mercati. In questo modo, è possibile ragionare in relazione ad una “massa critica”, prodotta dall’aggregazione progressiva dei soggetti in campo, che può rappresentare una valida alternativa macroeconomica al deserto produttivo meridionale e stimolare efficacemente nuove strategie di sviluppo per il Sud. È, soprattutto, la rapidità del cambiamento e la possibilità di partire dal basso, ma in una dimensione di rete, che definiscono l’utilità e la pervasività di questa ondata innovativa. Napoli e il Mezzogiorno devono saper cogliere il senso delle parole di Henry Chesbrough, secondo il quale: “Un mondo pieno di opportunità e di rischi attende coloro che hanno il coraggio di compiere questo viaggio”. Con il convegno sull’open innovation, la nascita di un’associazione dedicata a questo tema (Napoli open innovation, www.nextopeninnovation.org) e la pubblicazione di questo volume abbiamo iniziato la nostra avventura. Speriamo che siano in molti a condividerla.


Alfonso Ruffo

Direttore del Denaro
Chi l’ha vista all’opera la paragona a uno Tsunami. È la rivoluzione culturale dell’Open innovation, l’innovazione aperta che conquista coscienze e comportamenti. Quando arriva, nulla più è come prima.
Dobbiamo averne paura? Sì, se restiamo ancorati a vecchi schemi di protezione. La casa crollerà e noi saremo seppelliti dalle macerie. Certamente no, se sapremo accettarne la filosofia e farla nostra.
È un’onda violenta che passa da un continente all’altro. Bisogna saperla cavalcare, essere pronti all’impatto per farsene trasportare. Vietato chiudere gli occhi, sconsigliato sottovalutarne la portata.
L’innovazione aperta si basa sulla condivisione a scala mondiale di soluzioni per ogni tipo di problema. Corre lungo i fili invisibili della rete, cancella le distanze, esalta le differenze; trasforma i vincoli in opportunità.
Chi ne ha provato l’ebbrezza e misurato gli effetti ne parla come di un sistema magico che trasforma tutti i giocatori in vincitori. Chi cerca risposte e chi le dà. In ruoli che possono capovolgersi all’infinito.
E il vecchio adagio per il quale il cammello è un cavallo disegnato da un gruppo di lavoro? Spazzato via. La forza della massa, l’intelligenza collettiva, diventano il motore del mondo. Le idee sono tutto.
Significa dover rinunciare ai frutti del proprio intelletto? Tutt’altro, si tratta di poterne cogliere i vantaggi alla massima potenza. Nell’open innovation le proprietà immateriali valgono più dei mattoni.
Le imprese, anche quelle piccole, possono contare sull’attenzione di centinaia di migliaia di ricercatori, professionisti e no, che accettano la sfida lanciata e si misurano sulla capacità di venirne a capo.
I giovani, anche quelli delle terre più remote, possono mettersi in mostra confidando nel proprio valore senza subire i condizionamenti di una società baronale, chiusa, nemica del merito. Non è poco.
Interrogando le masse e ricevendone i suggerimenti – secondo schemi di lavoro collaudati – si rinnovano le aziende, si migliorano le città, si rivitalizzano le organizzazioni. Si produce reddito, distribuisce ricchezza.
E noi ancora chiusi nel cerchio asfissiante del sospetto ancestrale, dell’invidia sociale, del dispetto personale.


Ivano Russo
Direttore del Centro Studi
dell’Unione degli Industriali di Napoli
L’iniziativa di valorizzazione dell’open innovation è stata sollecitata da Amedeo Lepore un po’ di tempo fa ed è stata posta a me in qualità di direttore responsabile del Centro Studi dell’Unione Industriali di Napoli. Per questo ho provato a pensare a un momento di confronto non eccessivamente dispersivo tra gli addetti ai lavori. Da tempo il Centro Studi dell’Unione Industriali ha avviato una serie di approfondimenti e di forum tematici su singoli argomenti. Tra questi un ruolo specifico è rivestito, a nostro parere, dall’open innovation e dalla gestione della conoscenza e della circolazione della conoscenza tra il sistema universitario e il mondo delle imprese.
Il focus sull’open innovation segue l’approfondimento sul-la responsabilità sociale delle imprese, in particolare del rapporto tra uomo e donna rispetto ai ruoli del management all’interno del sistema produttivo. Credo sia opportuno, per rilanciare il sistema delle imprese, guardare con interesse e fiducia all’open innovation. Da tempo si parla della sfida di velocizzare il trasferimento della conoscenza dall’Università, tradizionale luogo di produzione, alle imprese, dove invece la conoscenza viene applicata. Lo sfruttamento produttivo dell’open innovation è un grande tema e una grande sfida competitiva per il Mezzogiorno. Attraverso l’open innovation le imprese meridionali possono colmare quel divario che ancora esiste con altre realtà del Paese e attivare una dinamica di trasferimento tecnologico assolutamente rilevante nel contesto economico attuale. È importante, però, che le imprese conoscano a fondo tutti i vantaggi garantiti dall’open innovation e sappiamo come capitalizzare al meglio questa risorsa. Perché solo così la nostra realtà produttiva può guardare al futuro.


INTERVENTI


Amedeo Lepore

Docente dell’Università degli Studi di Bari e Luiss di Roma
Questo incontro di estrema attualità sull’open innovation, promosso dal Centro Studi dell’Unione Industriali, costituisce un primo momento di confronto tra personalità che svolgono attività in diversi settori degli studi e della ricerca – compreso uno storico economico, come il sottoscritto –, del web 2.0 e dell’economia della rete, la net-economy. Si è aperto, infatti, un campo molto vasto e inedito di azione, che, grazie alla “rivoluzione delle comunicazioni” promossa dallo sviluppo di Internet negli ultimi due decenni, può consentire una partecipazione di massa alla soluzione di problemi rilevanti per l’innovazione di processo e di prodotto, oltre che per l’affermazione di un nuovo modo di concepire la conoscenza e la sua gestione (knowledge management). Il metodo del crowdsourcing, un termine che risulta difficile da tradurre in in taliano, ma che deriva dalla sintesi di due parole crowd (folla) e outsourcing (la pratica di affidare all’esterno alcune attività), si concretizza quando “una società chiede a una comunità indistinta di svolgere per suo conto un compito prima affidato ai propri dipendenti”, secondo l’indicazione contenuta nella rivista ‘Wired’. Si tratta di una nuova forma di ricerca collaborativa, che permette ad una moltitudine di persone e organizzazioni di contribuire ad un avanzamento del tutto inusitato della conoscenza, a livello dell’economia globale. Attraverso questa modalità, è possibile, non solo migliorare lo standard e la portata delle iniziative di business aziendale, in quanto tali, ma anche impiegare uno strumento offerto dalla rete per suddividere in piccoli compiti diffusi grandi attività concentrate e creare nuovo valore, spostandone il baricentro all’esterno dell’impresa. Inoltre, in un’accezione più ampia, questo metodo innovativo serve a rivoluzionare, in molti ambiti, il processo di elaborazione cognitiva e scientifica, i suoi contenuti di merito e i suoi obiettivi: così, è possibile minimizzare i costi e i tempi necessari per il conseguimento dei relativi risultati e, inoltre, mettere in grado istituzioni, gruppi, organizzazioni e singoli individui di soddisfare le proprie esigenze di progresso delle conoscenze, di soluzione di problemi complessi e di partecipazione ad un nuovo stadio dell’accrescimento complessivo del sapere e delle sue applicazioni concrete. Innocrowding, il social network guidato da Alexander M. Orlando, che si sta sviluppando a livello internazionale per diffondere la cultura e la pratica dell’open innovation e per realizzare un sistema collaborativo di rete sempre più pregnante, è una delle realtà più avanzate in questo campo, insieme ad InnoCentive (e a diverse altre, in crescita esponenziale nel web). Il confronto che si apre, a partire da questo convegno, con l’esperienza avviata oltreoceano è di fondamentale importanza, anche se si tratta solamente di un primo approccio alla problematica dell’innovazione diffusa e all’analisi delle iniziative dei suoi principali protagonisti, cui dovranno seguire incontri mirati con il mondo delle imprese, dell’università, delle competenze e delle professioni, per approfondire le opportunità offerte dall’attuazione e generalizzazione di una tale innovazione nel nostro Paese. In ogni caso, il punto di partenza di questo mutamento e della sua promozione deve essere il nostro territorio, le realtà di Napoli e del Mezzogiorno, nella considerazione delle vaste possibilità offerte dall’open innovation, attraverso la piena valorizzazione di un peculiare e intenso passato, ma, soprattutto, grazie alla chiara manifestazione della capacità della parte migliore del Sud di assumersi una responsabilità verso il futuro. I trascorsi di questa grande area meridionale hanno profonde radici, con fasi di protagonismo positivo, ma con la persistenza di una situazione di divario rispetto al resto del Paese, che ha caratterizzato la storia del Mezzogiorno, perlomeno negli ultimi centocinquanta anni. Questa situazione è stata definita da un rapporto costantemente divergente tra il Nord e il Sud, eccetto quando si è affrontata la “questione meridionale” con strategie nazionali, volte allo sviluppo industriale dell’intera regione, e con politiche di carattere strutturale, in grado di fornire una risposta al dualismo attraverso lo strumento dell’intervento straordinario. Questo scenario, tuttavia, è alle nostre spalle perché, ormai, dopo la Cassa per il Mezzogiorno, non vi sono state più iniziative di questa natura. Al contrario, sono state operate scelte che, non solo non hanno contribuito a risolvere il problema del Mezzogiorno, ma lo hanno seriamente aggravato. I tempi più recenti, poi, hanno visto prevalere l’immagine deteriore, purtroppo partita da Napoli, di una realtà in via di completa disgregazione. Un territorio rappresentato per la sua arretratezza, il suo declino e i suoi drammi, oltre che per le sue incapacità di fondo, rispetto alle esigenze di un mondo che sta cambiando profondamente. Il Sud, in questo modo, rischia di essere lasciato a sé stesso.
Eppure, si può provare a ripartire da un’idea positiva dello sviluppo di questa parte del Paese, attraverso iniziative innovative, che non siano solo il prodotto di decisioni dall’alto (o top down, come si dice). Innanzitutto, perché ci troviamo in una situazione molto particolare, nella quale, per ragioni di fondo – cioè, per le compatibilità economico-finanziarie dello Stato, ma, soprattutto, per la delegittimazione delle istituzioni e della politica meridionali –, non vi è un clima favorevole allo sviluppo di interventi nazionali per questa macro-area italiana. Il Mezzogiorno non ha reso una buona prova di sé, anzi, in questi anni, ha espresso classi dirigenti e capacità di governo del tutto inadeguate, se non pregiudizievoli per il proprio destino. Il “respingimento” del Sud è stato motivato anche dal fatto che è emersa una “questione settentrionale”, sospinta dalle esigenze di affrancamento dai vincoli burocratico-amministrativi ed espressione di un nuovo protagonismo competitivo della struttura produttiva del Nord, che ha catalizzato attenzione e interessi rispetto alle politiche di sviluppo, forzando la mano sull’abbandono del Sud al suo destino. Di fronte alle serie difficoltà dei prossimi anni di operare nuove scelte di carattere generale, che potrebbero contribuire fortemente a invertire le tendenze negative per il Mezzogiorno, è necessario compiere un profondo cambiamento, nel senso di una discontinuità, verificando concretamente le modalità attraverso le quali il Sud, con il protagonismo dei propri attori, possa riprendere un cammino positivo. In questo senso, la scelta della costruzione e della gestione della conoscenza in una logica di crescita dal basso (o bottom up) assume una rilevanza autonoma ai fini della ripresa dell’area meridionale, soprattutto se orientata verso un nuovo paradigma di sistema.
Quella dell’open innovation è l’occasione per muoversi in questa direzione. È un’idea-forza che può fare uscire il Mezzogiorno da uno scenario di inerzia e di chiusura interna, che andrebbe consegnato alla storia di questa parte del Paese e non alla sua attualità. Il destino del Sud è legato alla capacità di emanciparsi, di crescere e di aprirsi ad un rapporto con le aree territoriali dell’Europa e del resto del mondo, che stanno già conducendo un processo di profonda trasformazione. Il Mezzogiorno, infatti, non è in grado di trovare la ricetta per risolvere i propri problemi solo al suo interno o dentro i confini nazionali. Il nuovo modello di competizione internazionale richiede l’adozione di una prospettiva di carattere globale, inserendo l’analisi e le possibilità di soluzione dell’atavica contraddizione del dualismo italiano, il divario tra il Nord e il Sud, in un contesto più ampio e aggiornato. In questo modo, può apparire più chiaramente l’occasione che si presenta per una società difficile e complessa come quella meridionale, ma anche per un mercato che può cogliere, dagli svantaggi della sua condizione, una grande opportunità. Il Mezzogiorno si trova in una condizione di grave arretratezza economica. Tuttavia, la presenza di talenti, creatività, intelligenze, competenze diffuse, in questa parte dell’Italia, può rappresentare l’elemento di fondo sul quale puntare per introdurre un motore di aggregazione e di crescita, che non è un fattore tradizionale nella nostra economia, ma che può diventare, oltre che una grande novità, un elemento di vantaggio considerevole. Gli strumenti dell’economia della conoscenza, con particolare riferimento alla rete telematica, possono stimolare notevolmente l’utilizzo e l’espansione di un sistema, nel quale agiscono da protagonisti figure come quelle dei seekers e dei solvers, cioè coloro i quali hanno problemi da risolvere (innanzitutto, le aziende) e coloro i quali posseggono la preparazione o l’inventiva per trovare le soluzioni più avanzate (innanzitutto, i “cervelli” e i ricercatori): uno schema di questo tipo, con una relazione stretta tra domanda e offerta di knowledge, può trovare nel Mezzogiorno un’area particolarmente favorevole. E può trovarla per due ragioni fondamentali: la prima è la crisi internazionale, la seconda è la rete in quanto tale, che mette in evidenza il merito e le capacità, consentendo di porre su un piano di pari opportunità realtà e soggetti diversi. Internet, infatti, è l’espressione di un mondo aperto, nel quale chi è possessore di ingegno, di cultura e di creatività può dare un contributo effettivo al successo di un’idea innovativa, può entrare in un circuito virtuoso e affermarsi rapidamente. Un nuovo modello può succedere a quello “nordista” della riproduzione del valore semplicemente all’interno dell’azienda: quello delle relazioni tra l’impresa, la sua organizzazione interna e il mercato, ovvero i consumatori e gli utenti, nel cui ambito assume decisiva importanza la realizzazione di un incremento di ricchezza e di significato dell’attività svolta. Al tempo stesso, la crisi rappresenta non solo una situazione sfavorevole e di arretramento, ma anche una condizione di svolta, in grado di far fruttare un’opportunità. Questa crisi, infatti, sta ridefinendo gli equilibri internazionali, ma sta anche rideterminando le modalità attraverso cui funzionano il sistema di produzione e il sistema di fornitura dei servizi. In questo quadro, si sta intensificando ed estendendo la possibilità di realizzare idee, non solo attraverso il contributo di gruppi ristretti di esperti, di uffici interni ai nuclei aziendali, ma attraverso una partecipazione diffusa di idee, di inventiva e di talenti. Vi sono due punti di riferimento teorici, dai quali si può partire, per una più approfondita comprensione di questo percorso. Il primo è lo studio di Chris Anderson su “The long tail”, di grande interesse, perché – oltre ad utilizzare un metodo di approfondimento, di indagine e di studio, molto simile a quello di chi si occupa di storia economica, cioè l’analisi quantitativa e seriale dei fenomeni economici, che, partendo da fatti concreti, arriva alla definizione teorica – ha effettivamente indicato un’interpretazione del passaggio dal vecchio sistema del mercato e della produzione di massa, ad un sistema nel quale i mercati di nicchia, se aggregati, messi insieme tra loro, possono rappresentare un’alternativa significativa al sistema precedente. Questo è anche un modo per comprendere e fornire risposte alla complicata realtà dei territori meridionali: il fatto che nel Mezzogiorno vi siano tante piccole iniziative autonome, alcune delle quali hanno anche un carattere fortemente innovativo, può permettere di individuare qui un pezzetto della coda lunga, sviluppatasi a livello internazionale.
Il secondo riferimento è a Coimbatore Krishnarao Prahalad, che ha analizzato la distribuzione del reddito, attraverso una piramide, la cui base, in precedenza, veniva ritenuta una massa indistinta, una parte della popolazione del mondo bisognosa unicamente di interventi di carattere assistenziale. Considerata non nella univocità dei singoli individui, ma in tutta la sua estensione, rappresentativa di una fetta fondamentale della popolazione mondiale con un reddito molto basso – sono stati presi in esame, infatti, i 4 miliardi di persone che hanno un reddito al di sotto di due dollari al giorno –, la base della piramide acquista un altro significato. Questa notevole parte della popolazione, infatti, può costituire un grandissimo mercato. Sulla base di tale semplice, ma non scontata valutazione, si è dato il via a tutta una serie di strategie e di interventi – soprattutto, in riferimento alle aziende private –, che, in qualche modo, hanno sostituito le vecchie politiche di welfare. Basti pensare a ciò che ha rappresentato il microcredito a livello internazionale o guardare ad alcune iniziative di considerevole importanza, che alcune aziende multinazionali hanno concepito per i paesi più arretrati del mondo, con la realizzazione di prodotti monodose, in grado di soddisfare una domanda frammentata ed ampia. Facendo riferimento a queste opportunità, vi è la possibilità di individuare un percorso di grande utilità per la realtà meridionale.
Il Sud può fare tesoro dei propri punti di forza e cercare di sfruttarli al meglio. Le regioni meridionali mostrano il grande limite di una diffusa presenza di intelligenze, di competenze e di creatività, che, solo al di fuori di questo territorio e del suo contesto, riescono a realizzare notevoli obiettivi, ma che nel Mezzogiorno, in mancanza di un sistema nel quale possano far valere le proprie attitudini, purtroppo, vanno disperse. Il crowdsourcing, la rete e l’open innovation possono aiutare a far maturare decisamente queste capacità. Quelli che sono apparsi come punti di debolezza (il mercato frammentato, la presenza di una struttura che si basa prevalentemente sulle piccole e medie imprese, ecc.) possono diventare, al contrario, elementi di particolare vantaggio e un’occasione propizia nel corso di questa nuova fase, nella quale la crescita dal basso delle idee, la diffusione della conoscenza, a partire dal rapporto “da pari a pari”, possono rappresentare una nuova frontiera o, perlomeno, essere un contributo ad un nuovo tipo di sviluppo dell’area meridionale e alla responsabilizzazione di chi opera nel Sud. Su questi obiettivi, è possibile oggi costruire una nuova iniziativa di vasta portata per Napoli e per tutto il Mezzogiorno.


Costantino Formica

Presidente del Cesvitec
Mi ritengo un “recente amico” dell’open innovation. Se sono qui, lo devo ad Amedeo Lepore. Ci siamo sentiti qualche mese in occasione di un convegno sull’innovazione. Abbiamo avviato un percorso comune di riflessione e di azioni ed eccoci qui. Mi sento coinvolto non solo professionalmente ma anche per il ruolo istituzionale che ricopro. Sono un broker dell’innovazione, in quanto consulente di management. Sono altresì presidente di un’azienda speciale della Camera di Commercio di Napoli che si dedica al trasferimento di tecnologie. Sono dunque fortemente interessato ad aprirmi all’open innovation. Finora, la parola d’ordine è stata: trasferire le tecnologie e le conoscenze dove ci sono e si producono e fare i conti con i brevetti e con la proprietà intellettuale.
L’open innovation ci fa capire che esiste un altro approccio. Noi broker dell’innovazione dobbiamo tener conto di questa nuova prospettiva prima che la globalizzazione ci lasci indietro. Da troppo tempo inseguiamo. Sforziamoci di produrre idee per tentare di trasformarci in anticipatori. In materia di open innovation possiamo dire che siamo di fronte ad uno scenario di un certo rilievo. Esso porterà dei cambiamenti radicali: innanzitutto sfumeranno i contorni internazionali della competitività, perché se vogliamo aprirci agli innovatori tramite web 2.0, dobbiamo sapere che da qualsiasi parte del mondo potrà venire un’idea giusta, una soluzione. In secondo luogo, è molto importante l’esigenza di rafforzare l’ambiente competitivo entro cui operano le imprese. Ovviamente bisognerà ripensare ad un equilibrio più giusto tra il problema della proprietà intellettuale e al modo in cui continuare a tutelarla, ma anche al modo in cui ovviamente diffondere la conoscenza presso coloro che ne hanno bisogno ma non sempre dispongono delle necessarie risorse per acquisirla ; naturalmente la questione non è di facile soluzione.
C’è poi la possibilità che di questa opportunità beneficino di più le zone ad alta concentrazione imprenditoriale ed industriale, inserite in territori meglio gestiti sul piano politico-amministrativo. Dunque, per quanto ci riguarda, dobbiamo perciò guardare alla cosiddetta “dimensione regionale e distrettuale delle imprese”; verso questa dimensione particolare, di filiera, di concentrazione produttiva si deve puntare fortemente alla diffusione dell’innovazione, per sollecitare nuove condizioni di crescita. In secondo luogo, nell’ambito di azioni di sistema, tutto ciò non può avvenire senza che la pubblica amministrazione si rinnovi a sua volta. Non avrebbe senso pensare ad un ambiente competitivo, innovativo, senza poter contare su una pubblica amministrazione quale elemento almeno di incoraggiamento e di traino della innovazione territoriale.
Sempre per quanto riguarda i prevedibili cambiamenti dobbiamo aspettarci, naturalmente, la crescita della diffusione delle metodologie di problem solving e di problem setting. Non esiste, in proposito, una metodologia standard: ognuno pratica il suo modello e ciò va visto in maniera positiva per il destino dell’innovazione delle piccole e medie imprese.
Si potrà verificare, inoltre, una tendenza alla riduzione dei costi della ricerca. Ciò potrà determinare una prospettiva di maggiore incoraggiamento e di accesso delle piccole imprese alla innovazione.
Come accedono oggi le piccole aziende all’innovazione, con quali strumenti e opportunita? Qual è il ruolo degli intermediari?
Naturalmente non mi riferisco solo degli intermediari istituzionali come il Cesvitec, come il sistema camerale. Penso anche degli intermediari associativi che svolgono una funzione di promozione di primo livello, potremmo dire, di alfabetizzazione e di servizi di base per l’innovazione. Poi ci sono le fiere, ad esempio, nell’ambito delle quali si verifica spesso il primo contatto con l’innovazione, il contatto con fornitore e con il cliente. Non c’è azienda che non innovi grazie al fatto che ha un legame stretto e positivo, soprattutto con i fornitori e con il cliente. C’è un accrescimento fisiologico delle competenze tecnologiche interne e infine c’è la pratica dell’acquisizione per copia, per benchmarking in modo più sofisticato. Ma anche l’acquisizione per imitazione. Un’interiorizzazione della pratica dell’innovazione. L’open innovation, invece, cambia un po’ questa modalità, innanzitutto poiché abbiamo bisogno di una pratica di innovazione sistematica che non può essere affidata al caso. Le aziende hanno l’esigenza di capire che cosa va portato fuori e che cosa va tenuto all’interno dell’azienda, che cosa conviene cedere all’esterno e che cosa conviene mantenere al proprio interno. Naturalmente essere assistiti da una cultura ed una intelligenza collettiva, aiuta le imprese e certamente questo è molto importante perché lo strumento del networking aumenta la possibilità di raccordarsi, soprattutto con i clienti e con gli utenti. Finora l’innovazione è avvenuta, nella maggior parte dei casi, senza clienti e senza utenti. Oggi si sta diffondendo questa pratica ma non è ancora un fatto acquisito, per cui credo che dobbiamo lavorare soprattutto alla sperimentazione di queste nuove modalità, consapevoli che per le imprese ci saranno problemi. Bisognerà superare i problemi storici di una cultura imprenditoriale delle piccole e medie imprese che complessivamente non sono ancora adeguate alle sfide e alle esigenze competitive; bisognerà superare l’individualismo, le difficoltà finanziarie che conosciamo tutti, superare la diffidenza nei confronti del mondo dei ricercatori e degli accademici; bisognerà superare la chiusura all’interazione con il mondo esterno, verso i diversi attori dell’innovazione e del cambamento. Di fronte a questa prospettiva, gli intermediari tradizionali, compresa una struttura come il Cesvitec, si limitano ad offrire informazione, sensibilizzazione, disponibilità di banche dati, formazione e qualcuno come il Cesvitec, piattaforme tecnologiche di supporto al knowledge management. Pochissimi tra gli intermediari tradizionali fa scouting, una buona esplorazione delle possibilità che ci sono individuali e collettivi, di centri di ricerca e universitari. Solo recentemente, con una protocollo di intesa tra Cesvitec e sistema camerale e polo delle scienze e delle tecnologie della Federico II, siamo riusciti ad ottenere una conoscenza aggiornata di qual è lo stato della ricerca e della innovazione nei laboratori della Federico II.
Così, ovviamente, non andremo molto lontano: c’è il problema di valorizzare e fare marketing delle tecnologie. Le stesse imprese non sempre sono in grado di farlo perché pensano al prodotto piuttosto che alla modalità di trasferimento delle proprie tecnologie.
L’innovazione territoriale deve assumere dunque un nuovo significato, una prospettiva in tempi assai ravvicinati di equilibrio e integrazione tra chi governa lo stato, le comunità locali, i territori e chi governa le imprese : ci sono soggetti, attori che oggi non partecipano a questi processi come le pubbliche amministrazioni locali, le quali si limitano ad offrire aiuti e sostegno alla innovazione; si fidano dei progetti di innovazione dei sistemi delle imprese ed offrono finanziamenti. Nulla di più. Esse stesse non sono in grado di offrire nuovi approcci e modalità, tempi e procedure semplificate, che potrebbero davvero essere utili per sostenere il sistema competitivo delle imprese. È dunque forse un po’ audace riferirsi ai Living Lab, laboratori della creatività che sono stati progettati negli Stati Uniti e che sono diffusi in città europee. Questi sono strumenti di integrazione territoriale di cui fa parte la pubblica amministrazione, per favorire l’innovazione. Nel nostro piccolo, la struttura camerale, il Cesvitec in particolare, siamo spesso attivi nel creare dei focus group integrati, nell’ambito dei quali cerchiamo di far convergere tutte le competenze e le responsabilità possibili per la ricerca, l’innovazione, la messa a punto delle competenze gestionali. E questo è un ulteriore, serio problema. Bisogna standardizzare i percorsi di elevazioni e di crescita delle competenze. Non andremo molto lontano se non ci sarà una cultura delle competenze e delle modalità di accrescimento costante delle competenze. Ciò non avviene. E non penso che non avvenga nella Regione Campania bensì nel nostro paese che credo sia uno dei pochi in Europa che non ha ancora standardizzato le modalità con cui si possono raggiungere qualifiche che siano confrontabili all’interno delle singole regioni e confrontabili ovviamente con gli altri paesi.
Infine credo che abbiamo bisogno di tre rivoluzioni, avendo la consapevolezza che bisognerà lavorare per tempi medi e lunghi, prima di vedere risultati apprezzabili. Prima di tutto il del digital divide. Non c’è bisogno di richiamare le ultime statistiche dell’Istat per sapere che il nostro paese, pur essendo avanti per quanto riguarda l’alfabetizzazione informatica, è invece indietro per quanto riguarda l’uso di internet e della rete. È uno degli ultimi paesi in Europa nell’uso della rete. In secondo luogo bisogna lavorare per una maggiore e duratura apertura internazionale. Non basta esportare o importare merci e servizi. Dobbiamo saper esportare e importare conoscenza, perché senza la conoscenza non andremo molto lontano. Infine dobbiamo abbandonare i comportamenti individualistici. Richiamo alla nostra attenzione come le aringhe fanno gruppo. Lo abbiamo visto nei documentari: il modo con cui organizzano il lavoro di gruppo, proprio come fanno gli insetti che hanno una grande capacità di lavorare in gruppo. Questo esempio, un po’ banale, deve però farci riflettere sul modo in cui i piccoli imprenditori nostrani dovrebbero lavorare per una rivoluzione culturale e gestionale, impostata sulle reti, sui partenariati, su una più intensa integrazione produttiva e territoriale.


Antonio Prigiobbo

Designer digitale
Sono un creativo, per essere più precisi sono un designer dei prodotti digitali. Svilupperò la mia relazione usando più linguaggi, per questo potrà essere diversa dalle altre relazioni e molto del significato si perderà quando il testo sarà solo scritto. Vorrei che questa relazione seguisse il ritmo generativo della serendipidity che mi hanno portato all’open innovation e qui ora, ma vorrei che fosse altrettanto chiaro che, in questo stesso momento, potrei essere in un altrove indefinito nel mondo. Vorrei che fosse chiaro che grazie alle ICT quello accade è oltre il senso del luogo.
L’open innovation è un settore dell’innovazione legato alle nuove tecnologie, ai nuovi linguaggi e alla transizione dal reale al virtuale e viceversa che azzera le distanze territoriali.
Inizio dai ringraziamenti perché, se siamo qui questa mattina, è grazie alle persone qui presenti, che hanno in qualche modo, contribuito in diverso modo all’attività che ho sviluppato. Sono “nato” informatico, poi ho esplorato i new media come tecnologie della comunicazione e strumenti generatori di nuovi linguaggi e così sono approdato al design dei servizi. Un percorso sempre sull’asse della creatività.
Per fare innovazione, e farla diventare un valore del capitale sociale e di mercato, è importante la condivisione della conoscenza: conoscere saperi, persone, “prodotti/contenuti”, parole che possono avere più significati, in questo tipo di economia, l’informazione è un prodotto. Qualsiasi cosa noi facciamo, nel mondo reale e della rete, si manifesta nei termini di relazione tra saperi, persone e prodotti. Per generare conoscenza è essenziale creare relazioni tra questi fattori. Tutto questo deve tradursi in informazione.
Per agire in un mondo globalizzato basato sull’economia della conoscenza, dobbiamo comprendere come governare con le nuove tecnologie questi fattori che sono, poi, i mattoni della conoscenza. In particolare, noi possiamo avere un prodotto nostro o di un’altra persona oppure avere una relazione con una persona per un interesse comune, ma per produrre conoscenza su questi nostri “averi” dobbiamo poter archiviare in memoria queste informazioni e, se vogliamo, poter condividere queste informazioni con altre persone. I sistemi di social network si fondano su questa logica ed ora danno la possibilità a noi ed altri di aprirci alla condivisione della nostra conoscenza, dei nostri “averi”.
Alla base dell’open innovation c’è il principio dell’open source. In informatica open source significa un software i cui autori ne permettono il libero studio e apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti. L’open source si fonda sul principio che le conoscenze del singolo sono limitate e, dunque, non possono essere paragonate alla conoscenza collettiva.
Sia le regole descrittive dell’informatica che le logiche di socializzazione dei new media non sono sufficienti a garantire lo sviluppo di una economia basata sulla conoscenza. Per questo ho voluto formarmi al design dei servizi. La cultura del progetto e gli strumenti del design sono alla base dello sviluppo del prototipo di una piattaforma di knowledge management folksonomy, il cui lavoro di progettazione è stato la conclusione del mio percorso di studi al corso di laurea in Disegno Industriale. KMF è un generatore di open innovation poichè è sistema digitale per la condivisione della conoscenza e il suo management basato sull’apertura delle tecniche di knowledge management alle logiche della folksonomy. Attraverso questa piattaforma digitale gli utenti possono essere “providers”, produttori di conoscenza che alimenta il sistema che la gestisce.
KMF è un sistema digitale aperto, fondato su una logica di apertura al contributo bottom up, vale a dire che la gente (= folks) attribuisce rilevanza al contenuto immesso nella piattaforma. Folksonomy è, dunque, una modalità di classificazione dei contenuti/informazioni/prodotti dal “basso”, creata in modo collaborativo dagli utenti che, attraverso parole chiave tags, manifestano la rilevanza statistica della condivisione dei concetti che tali parole rappresentano.
Quando 5 anni fa ho conosciuto Alex Orlando, ho pensato immediatamente che per fare realmente open innovation, per non essere una filosofia per pochi, ci fosse bisogno di tecnologi capaci di generare linguaggi in grado di comunicare – e far comunicare – i potenziali utilizzatori. KMF può essere un esempio di tecnologia per rendere operativo il principio dell’open innovation. Al momento, è allo stato di prototipo perchè per implementarlo con il gruppo Wooom abbiamo bisogno di risorse economiche ed umane. Nel lavoro di tesi con le mie docenti, Patrizia Ranzo e Carla Langella, avevamo ipotizzato che un settore per il suo sviluppo potesse essere il design applicato all’innovazione sostenibile. Per cui gli utilizzatori del sistema da mettere in relazione tra loro, anche in base a principi di georeferenziazione, sarebbero stati i designer, i centri di ricerca sui materiali (ma non solo), le aziende produttrici di artefatti ecosostenibili, i produttori di risorse (in particolare quelli che si occupano di materiali da riciclo) e i potenziali “buyers” che, attraverso questo sistema, avrebbero potuto esprimere le loro esigenze e, dunque, anche “content providers”.
Questo lavoro aveva come obiettivo la messa a sistema di una filiera produttiva su una base territoriale definita, la regione Campania. Ma la scena su cui operano le tecnologie dell’open innovation è aperta come i sistemi utili alla sua realizzazione.
Il limite della creatività è darle uno spazio in cui agire. Il nostro Mezzogiorno tanto più può avvalersi dei talenti dei suoi creativi tanto più offre loro la possibilità di competere con altri a livello mondiale. E questo credo sia il vero scopo dell’open innovation.


Lucio Iaccarino

Coordinatore generale Think Thanks
Innanzitutto siamo felici che l’Unione degli Industriali di Napoli abbia ospitato un appuntamento così importante, poiché l’open innovation più che essere uno strumento è un vero e proprio vincolo nel quale le imprese, soprattutto quelle che hanno una forte caratterizzazione di tipo tecnologico, sono spinte a operare.
È convinzione comune che tra i fattori di maggiore successo per lo sviluppo economico, ci debbano stare «ricerca» e «innovazione». In genere i due termini sono se non proprio sovrapponibili quantomeno propedeutici l’uno all’altro. Ma «ricerca e innovazione» a loro volta non esauriscono il campo delle azioni che le imprese sono chiamate a realizzare per presentarsi sul mercato in modo competitivo. La svolta è impressa dall’open innovation, come vera e propria rivoluzione organizzativa, volta ad aprire i confini aziendali, sviluppando innovazione, seguendo modalità di condivisione, coinvolgimento e partecipazione. Si passa dall’impresa che investe all’interno dei suoi confini a un soggetto economico capace di catturare nell’ambiente circostante tutte le conoscenze indispensabili a mantenere o a espandere le sue quote di mercato.
L’open innovation, in realtà, è un principio organizzativo basato sulla raccolta delle informazioni dal mondo, generando azioni e innovazioni permeabili rispetto alle competenze diffuse tra la gente. Per intenderci, le grandi aziende sono già dotate di unità interne di Ricerca & Sviluppo, ma con l’open innovation si punta sulla costituzione di unità di Connessione & Sviluppo che si preoccupano di costruire rapporti con l’esterno, rendendoli parte integrante del processo produttivo. L’invito a partecipare al processo innovativo avviene sempre di più chiedendo alla folla degli internauti di proporre idee e soluzioni per problemi concreti dell’azienda. Il know-how e le conoscenze prodotte attraverso un utilizzo strategico delle reti (telematiche, professionali, amicali, social-network) o ricorrendo a strategie di Crowdsourcing cambiano le modalità dell’azienda di rintracciare le competenze nel mercato del lavoro.
In questo senso la mia esperienza imprenditoriale non può prescindere dal nuovo paradigma, poiché l’impresa di cui faccio parte nasce nel bel mezzo di questa svolta. Proverò, quindi, a presentarvi le ricadute dell’open innovation sulla sfida imprenditoriale che coordino da appena un paio di anni. Il suo nome è Think Thanks. Fin dal naming proponiamo un gioco di parole creato per dare valore all’intelligenza nelle scelte aziendali, traducibile con slogan come «pensaci grazie», «grazie del pensiero», ecc. Si tratta di una società napoletana tascabile, che opera nel campo della produzione di conoscenze in tre settori: 1. Ricerca & Comunicazione – 2. Assistenza organizzativa – 3. Formazione. Il nostro slogan aziendale può aiutare a comprendere meglio di cosa ci occupiamo: «L’impresa di fare ricerca quando la ricerca si fa impresa».
Il mio ruolo è già indicativo di un orientamento open, sebbene in termini di apertura mentale al confronto: sono il Coordinatore generale, non il direttore e coordino una serie di intelligenze spesso molto più grandi della mia. Si tratta di professionisti dislocati in punti diversi del mondo e che Think Thanks coinvolge attraverso una serie di premi e incentivi variabili, a seconda dell’entità di ogni singola commessa. Ciò che ci differenzia dalle altre società che operano nel settore della comunicazione, è appunto l’innesto della ricerca scientifica e il tentativo di ibridarla con la comunicazione. La sfida è particolarmente ardua perché cerchiamo di rendere «business» una serie di saperi che sono riconducibili alle scienze sociali latu sensu: quindi l’antropologia, il diritto, l’economia, la filosofia, la geografia, la psicologia sociale, la scienza politica, la sociologia, la storia, l’urbanistica. In questo senso, Think Thanks è open, come impresa culturale che opera con un rigido vincolo d’interdisciplinarietà, una forma di apertura da anteporre a tutte le altre.
L’esempio di un prodotto culturale ThTh chiarirà i termini della contaminazione Ricerca & Comunicazione. Guardando all’organizzazione di un evento scientifico, come per esempio un convegno, Think Thanks può intervenire sia sugli aspetti tradizionali relativi alla scelta di location, catering e alloggio dei partecipanti, sia alla produzione di conoscenze scientifiche ad hoc da presentare durante il consesso.
In questo caso uno o più ricercatori Think Thanks lavorano al fianco dei «Responsabili eventi» e dei committenti, arricchendo il programma scientifico con elementi conoscitivi di aggiornamento e d’inquadramento che possono risultare utili o alla riuscita del convegno. Si potrebbe trattare della comparazione tra legislazioni nazionali nelle materie (o su uno degli aspetti normativi) del convegno, piuttosto che l’analisi di dati prodotti da agenzie internazionali sempre sui temi in discussione. Più in generale, tutti i nostri progetti di comunicazione sono supportati da indagini scientifiche e di mercato (analisi del contesto, mercati di sbocco, analisi della concorrenza, customer satisfaction, ecc.), sulla base di uno scambio sinergico tra le competenze dei ricercatori e quelle dei creativi.
L’idea di non avere forme di chiusura tra i saperi è un aspetto fondamentale specie nell’elaborazione di una strategia di mercato, o di un piano di comunicazione, dove la possibilità di osservare lo stesso fenomeno con tecniche e approcci diversi si rivela un valore aggiunto, che aiuta a controllare esiti inattesi, migliorando l’efficacia di ciascuna campagna di comunicazione (sensibilizzazione, divulgazione, promozione, prevenzione). Ciò significa che su ciascun progetto lavorano équipe composte da ricercatori o esperti disponibili nel network scientifico e professionale di Think Thanks. Non effettuiamo consulenze, ma «assistiamo tecnicamente» enti, imprese, organizzazioni non profit e professionisti, attraverso la costruzione di staff qualificati e qualificanti, con competenze eterogenee, di diversa estrazione scientifica. Al contempo, più banalmente, cerchiamo di essere open anche per la trasparenza che contraddistingue i nostri ricercatori-comunicatori: collegandovi al nostro sito sarà possibile leggere i loro curricula.
Think Thanks riserva un’accurata attenzione all’aggiornamento e alla formazione delle intelligenze che di volta in volta transitano nella sua orbita gravitazionale. A tal fine periodicamente organizziamo meeting, sempre più open, dove elaboriamo nuove ricerche o condividiamo con ricercatori esterni, oltre che con nostri collaboratori, i risultati d’indagini o progetti sviluppati in precedenza. Tanto per dare un’idea di cosa si tratta, nella Plenaria di ThTh, 15 20 ricercatori si riuniscono per due giorni. Per 48 ore lavorano in maniera intensiva sulla ricerca, discutendo delle tecniche adoperate, della metodologia, e dei correttivi da apportare in futuro, per avvantaggiare la qualità dei prodotti ThTh. Crediamo che investire nella ricerca, in un’ottica di open innovation, sia fondamentale per ottenere vantaggi competitivi nel medio e lungo periodo, e oltre a consentire ad esterni di guardare all’interno dei nostri confini, in prospettiva futura ci consente di ampliare le reti di ricercatori e professionisti di livello nazionale e internazionale. Grazie a questa rete possiamo rispondere a commesse di ricerche di mercato su scala nazionale con una copertura di partenza che raggiunge la maggior parte delle regioni italiane.
Il nostro paradigma, l’elemento teorico più grande dentro il quale ci muoviamo, è condizionato da una visione relazionale del mondo, dove le reti telematiche assolvono ad una funzione di democratizzazione. Attraverso il web c’è un forte accesso democratico ai saperi, da parte di una grande quantità di soggetti. Si tratta di un processo nel quale siamo coinvolti allo stesso tempo come attori e come osservatori, quindi cerchiamo di vedere come si attivano i processi partecipativi dal basso sia nel mercato sia nella sfera pubblica. Esistono in rete una serie di opportunità che riguardano l’incredibile mole d’informazioni recuperabili attraverso il net-surfing, a cui si sommano i potenti mezzi di archiviazione offerti dai computer. Il passaggio al web 2.0 ha moltiplicato meccanismi di interattività, come quello di iscriversi ad un feed e avere la possibilità di accedere a saperi selezionati. Il passaggio successivo è quello di condividere i contenuti. Per cui il get feed e lo share feed sono i due principi cardine che ispirano il consumo della rete. Prelevare, selezionare per poi condividere genera un know how diffuso, ormai parte integrante anche della quotidianità dei ricercatori-comunicatori Think Thanks.
Abbiamo un debole per le reti, le organizzazioni, i gruppi sociali, i comportamenti e le emozioni, che indaghiamo attraverso approcci come il social capital, l’analisi dei gruppi sociali, il marketing emozionale, lo storytelling. Il nostro orizzonte di senso è lo slow marketing, vale a dire la necessità di rallentare la velocità dei flussi di comunicazione, a cui i consumatori sono soggetti. La sfida che Think Thanks intende affrontare riguarda lo studio e l’adozione di procedure che consentano al consumatore di frenare gli innumerevoli meccanismi di risposta agli infiniti stimoli comunicativi provenienti dalla pubblicità.
A tal fine la nostra ricerca è orientata verso il recupero di approcci centrati sulle relazioni umane, interpersonali, ricorrendo alle innumerevoli tecniche legate al passaparola, tanto faccia a faccia, quanto quelle che possono attivarsi in Internet. Presupposto del nostro approccio è l’osservazione dei comportamenti dei consumatori, utenti e cittadini, finalizzata alla cattura della loro attenzione per periodi decisamente più lunghi rispetto agli standard correnti. Strutturiamo esperienze coinvolgenti del brand, attiviamo giurie popolari per valutare le politiche pubbliche, misuriamo comportamenti, conduciamo ricerche qualitative per esplorare in profondità i fenomeni sociali. In definitiva sviluppiamo ricerche in grado di limitare le interferenze derivanti dalla contemporaneità degli stimoli pubblicitari, dei messaggi politici e istituzionali catturando l’attenzione dei soggetti coinvolti. In questo modo lo slow marketing recupera molti degli strumenti della ricerca qualitativa, come l’osservazione partecipante, l’intervista, i focus group, ecc.
Un esempio conclusivo su un processo open potrà chiarire meglio alcune delle considerazioni svolte in precedenza. Ci addentriamo quindi nel campo della produzione del documentario «Mezzogiorno e un quarto», progetto di punta di ThTh che tende a spostare in avanti la lancetta del dibattito sulla «questione meridionale». C’è stata una gara per raccogliere idee tra i ricercatori collegati a ThTh, per definire il frame teorico dell’iniziativa. I più attivi, portatori delle idee più interessanti, hanno preso parte al comitato scientifico. Lo stesso metodo è stato utilizzato per l’elaborazione del logo, per il quale abbiamo interpellato grafici all’interno della nostra rete professionale per selezionare l’idea più appropriata al concept. Dal confronto tra creativi e ricercatori è fuoriuscito il format dell’evento: due esperti, un moderatore. Ha preso quindi forma un’arena di discussione open, nel senso che 14 intelligenze di rilievo nazionale hanno raccontato il Mezzogiorno in dibattiti filmati presso il Centro di documentazione Think Thanks. Il comitato scientifico di ricercatori si è fatto carico della costruzione delle domande per tutti e 7 gli incontri da sottoporre ai relatori. Non si è trattato quindi di discussioni libere su un tema prestabilito, ma di un vero e proprio discorso focalizzato, all’interno di una griglia di domande preventivamente inviata ai relatori affinché le discussioni toccassero tutti i temi selezionati dal comitato scientifico. Le domande sviluppate nel primo incontro sono state registrate in video. I ricercatori le hanno studiate selezionando spunti da sottoporre nel secondo dibattito, rendendo cumulativo il livello di conoscenze prodotte. Un nostro ricercatore ha poi ripreso in video domande provenienti da esperti esterni che sono state proiettate durante il dibattito. La rassegna è stata promossa sui social network con una pagina facebook che ha raggiunto 1500 adesioni, con un pubblico per ogni appuntamento di circa 50 persone, risultato sbalorditivo considerando la perifericità del Centro di documentazione Think Thanks situato nel quartiere di Bagnoli a Napoli. «Mezzogiorno e un quarto» sarà presto un documentario, arricchito da altri materiali video raccolti durante l’anno in luoghi diversi, della città e del Mezzogiorno. Comincia a profilarsi un elaborato che pensiamo abbia un elevato contenuto di ricerca scaturito da incontri aperti, costantemente preoccupati di raccogliere quanti più stimoli possibili di discussione, aprendo e stravolgendo i confini del vecchio e annoiato dibattito pubblico. Con la pubblicazione del documentario, «Mezzogiorno e un quarto» potrebbe diventare un format web-tv.


Daniele Dalli

Docente dell’Università degli Studi di Pisa
Questo è un argomento che vorrei affrontare dopo aver discusso un altro aspetto che richiede – invece – una certa attenzione quando si parla di sistemi distribuiti di produzione o di creatività e cioè come si compensano gli input, ovvero il contributo che gli individui danno al sistema. Posto che c’è gente che partecipa a questi sistemi sociali e li sostiene, chi è che si appropria dei risultati economici di questa attività? Ci sono studiosi che sostengono che la partecipazione degli individui a questi sistemi sia sostanzialmente di tipo narcisistico. Io partecipo ad un sistema di open innovation o di social production per il semplice motivo che mi interessa farlo, mi interessa avere un ruolo riconosciuto all’interno di questa comunità e tendenzialmente mi disinteresso del fatto che qualcuno si appropri del risultato economico del mio lavoro. Perché io ho una qualche forma di ricompensa dal fatto che, all’interno di quella comunità, mi viene assegnato un ruolo di spicco per il valore, per l’originalità, per il successo delle idee che porto avanti. Ci sono altri studiosi invece che hanno elaborato dei modelli molto articolati e interessanti, che sostengono che l’incentivo a partecipare e ad avere successo all’interno di questi sistemi è collegato al fatto che, attraverso questi meccanismi di riconoscimento della reputazione e quindi il buon lavoro che non produce reddito ma produce reputazione, può essere poi sfruttato da coloro che partecipato al sistema sostanzialmente per il proprio curriculum e per incrementare la possibilità di spuntare un reddito via via più significativo sul mercato della professione. E questo è un po’ un modello che si è sviluppato nel sistema di produzione del software open source in cui coloro che hanno operato bene in quel sistema, si sono spostati in mercati di lavoro più tradizionali dove lavorano prestando la propria opera per qualcuno che li paga profumatamente.
Ecco, il fatto che questi sistemi esistano, porta con sé la necessaria considerazione che comunque esiste una ratio di natura direttamente o indirettamente economica, una logica di incentivi e ricompense che costituiscono lo stimolo per l’individuo a partecipare al sistema. Si tratta di incentivi sociali, economici o tecnici che spiegano la diffusione di questi processi in lungo e in largo nel panorama industriale e di servizio a livello internazionale. E ciò a prescindere da una equa redistribuzione dei risultati economici di queste iniziative, proporzionalmente ell’effettivo contributo prestato.
È peraltro vero che esistono anche casi in cui la redistribuzione trova spazio (alcune aziende riconoscono ricompense ai propri collaboratori esterni proporzionali ai risultati economici ottenuti) o che comunque garantiscono la libera circolazione dei risultati delle attività svolte (creative commons, ecc.).
Anche nella letteratura di management la questione della equa redistribuzione non trova spazio non ostante nell’ampio sistema della produzione sociale peer to peer ci siano casi in cui non esiste appropriazione. Cioè esistono sistemi in cui gli individui collaborano tra loro per prestare vicendevolmente dei servizi che non portano necessariamente, in modo immediato, un reddito. Ne abbiamo studiati alcuni che sono abbastanza interessanti. Vi faccio soltanto un esempio indicativo che è il Couchsurfing. È una comunità diffusa in tutto il mondo composta da persone che offrono o richiedono ospitalità a casa di qualcun altro in alternativa all’utilizzo di alberghi, pensioni e simili. Ad esempio perché non vogliono venire a Napoli per un week end pagandosi un albergo, come quello splendido che mi ha messo a disposizione l’Unione Industriali o un bed and breakfast, ma vogliono andare a casa da qualcuno che li ospiti. Qualcuno che non abbia incentivi economici ospitandoli. Qualcuno che fornisca loro un occhio genuino per l’interpretazione della città, per poi magari ricambiare l’ospitalità. Potrà farlo ma senza nessun vincolo, nel senso che un coachsurfer può decidere di ospitare o di essere ospite a casa degli altri senza alcun obbligo di reciprocità. Nessuno paga una lira, non c’è nessun tipo di remunerazione diretta o immediata. Un domani, quando la comunità sarà particolarmente sviluppata ci sarà un interesse di chi gestisce questa comunità a vendere gli spazi all’interno del proprio sito web per ragioni di tipo pubblicitario. Ma questo ancora non è accaduto.
Altri esempi sono i sistemi di file sharing che rosicchiano progressivamente le pratiche tradizionali di appropriazione contravvenendo quotidianamente alla logica del copy right. Rosicchiano i sistemi tradizionali con cui i grandi gruppi per esempio del settore discografico, si sono garantiti l’appropriazione di un prodotto culturale che in parte è sviluppato anche tra le folle tramite il loro atteggiamento di supporto ai musicisti e via discorrendo. Il file sharing è un sistema di recupero e riappropriazione dei valori che gli appassionati di musica hanno contribuito a sviluppare e che sono stati “riscossi” dalle case discografiche.
Io credo che i sistemi di cui stiamo parlando, stiano in piedi per oggettive relazioni di trade off tra incentivi individuali di tipo economico finanziario ecc., ma ci sono anche altri fattori di natura etica e ideologica che sostengono e fanno crescere sistemi più innovativi e più partecipativi.
Detto ciò vorrei fare un brevissimo passo indietro per spiegare il mio punto di vista sul ruolo delle istituzioni nel mondo della produzione sociale e – più specificamente – dell’open innovation. Sono un professore universitario e insegno a Pisa. Insegno anche in altre università diversa dalla mia, all’estero, sia in corsi universitari, sia in dottorati, sia in master. Lo dico perché la mia lingua principale dal punto di vista professionale è diventata l’inglese. Il sistema in cui lavoro mi ha costretto a questo passaggio. Per imparare l’open innovation bisogna sapere l’inglese. Non a caso nessuno la chiama “innovazione aperta”. A questo proposito, ritornando a ciò che diceva uno dei relatori precedenti, se c’è una rivoluzione che noi dobbiamo fare, e quando dico noi intendo dire persone che lavorano nelle istituzioni pubbliche (io lavoro in una istituzione pubblica, ma questo vale anche per le istituzioni associative, vale per qualsiasi tipo di ente che si occupi di questioni sociali e di interessi pubblici), è quella della lingua. Cioè, più che questioni di tecnologie, di accesso alla rete (penso che oggi i giovani di belle speranze, al sud e al nord possano avere un vantaggio dall’accesso alla rete e l’accesso lo trovano, lo scroccano per strada pescando dalla rete wireless, che qualche sprovveduto come me ha installato senza metterci una password, insomma, i ragazzini svegli le trovano le soluzioni per accedere al mercato dove mettere a frutto le proprie competenze), ma l’unica cosa che dobbiamo veramente sostenere è la capacità di parlare l’inglese e non a livello elementare. Per lavorare serve la lingua inglese e per di più a un livello altamente specializzato. Lo dico anche perché nella mia università, come in altre, facciamo corsi in lingua inglese (economia, marketing, statistica) che sono pensati per gli studenti Erasmus e Socrates, ma guarda caso, in aula troviamo due tipologie di studenti che mi hanno stuzzicato questa riflessione che condivido con voi: anzitutto gli studenti dell’Est europeo che non sono Erasmus e Socrates, ma vengono in Italia con o senza le famiglie e studiano con gli studenti italiani. In secondo luogo ci trovo gli studenti italiani, che vengono a seguire un corso in lingua inglese nonostante parlino l’italiano. Ecco con questi ultimi, gli studenti italiani, abbiamo discusso una questione delicatissima e cioè che tra breve si troveranno sul mercato del lavoro in Italia dove troveranno persone che hanno passato la prima parte della loro esistenza in un paese diverso dall’Italia, parlano perciò una loro lingua nativa, imparano rapidamente a parlare italiano e in più parlano inglese. Qui non si tratta di un problema di fuga dei nostri cervelli che vanno all’estero. Qui si tratta addirittura dell’ingresso di cervelli che sono dal punto di vista linguistico molto più dotati dei nostri.
Su questa questione – le abilità linguistiche – dovremmo fare investimenti che avrebbero ricadute particolarmente positive anche per le opportunità di sviluppo delle logiche “open” di cui stiamo parlando oggi. E in effetti avrete notato che le presentazioni precedenti erano piene di termini inglesi e ciò non è casuale.
Ora vorrei riservare qualche minuto alle questioni più professionali. Mi occupo di discipline manageriali e in particolare per un certo periodo di tempo mi sono occupato di modelli manageriali aperti con particolare riferimento ai sistemi di piccole imprese o distretti industriali. Henry Chesbrough non aveva ancora immaginato il libro sull’open innovation, quando in Italia si studiava come le imprese italiane piccole e medie dei settori tradizionali avessero imparato progressivamente a gestire i processi aziendali, anche in chiave aperta: la subfornitura, il decentramento produttivo, la specializzazione di sistema, ecc. Il mio maestro, il prof. Varaldo, ma tantissimi altri professori di economia, di economia industriale, di management hanno studiato come nel settore della concia, delle calzature, dell’abbigliamento, del mobile ecc. si siano sviluppati modelli di gestione aperta dove ogni singola impresa svolge un ruolo definito all’interno di una filiera o di un network o di una costellazione, come la chiama qualcuno, dove sono fisiologici gli scambi tra numerose unità nel perseguimento di alcuni obiettivi comuni. E la letteratura internazionale ne era e ne è perfettamente consapevole: vari anni fa Piore e Sabel, per non parlare di Michael Porter sono venuti in Italia a studiare come funzionano i sistemi della filiera produttiva, come la gestione della catena del valore possa avere una dimensione interaziendale, come si gestisce la governance di questi processi. Lo dico poiché oggi si sta discutendo della trasferibilità di alcuni modelli dal contesto Nord Americano a quello Italiano e in particolare al Mezzogiorno, quando forse siamo stati noi a insegnare questa modalità di organizzazione della produzione a chi invece aveva basato lo sviluppo economico-industriale sul modello della grande impresa integrata. E questa capacità assume un valore ancora più significativo quando si passa da una capitalismo di tipo fordista ad uno post-fordista o post-industriale come ci insegnano Enzo Rullani e la sua scuola.
Perciò, dal punto di vista delle competenze, delle strutture e delle risorse, non vedo grosse difficoltà a recepire la logica “open” nella nostra organizzazione industriale. Anche nell’industria meridionale ci sono numerosi esempi di sistemi di produzione locale basati sul forte ricorso a varie forme di decentramento produttivo. Quindi diciamo che non abbiamo un Dna incompatibile con questo tipo di processo. Il problema è che i modelli della open innovation e del InnoCrowding, hanno come oggetto attività su cui, invece, tradizionalmente, le nostre imprese sono deboli e cioè l’innovazione, la creatività, il dominio delle variabili tecnologiche ecc. Le nostre imprese tradizionalmente fanno poca ricerca e sviluppo, quindi da questo punto di vista, come diceva Formica, abbiamo continuato ad inseguire modelli e prassi che vengono da altri contesti, dove invece queste attività sono molto sviluppate. Aggiungo, inoltre, un terzo campo di attività in cui si sviluppa molto il modello del crowdsourcing e della lean production che è quella delle cosiddette attività a valore aggiunto che non risultano soltanto nella creazione di nuovi prodotti, nuovi processi, nuovi modelli o nuove soluzione tecniche e tecnologiche, ma riguarda molto più le variabili soft del marketing e della comunicazione che costituiscono il mio campo professionale più specifico. Una volta inventato il prodotto, il problema è portarlo sul mercato con una certa probabilità di successo e le risorse necessarie a questo scopo provengono da competenze che nelle piccole e medie imprese italiane non sempre sono facilmente riscontrabili. Anche in questo campo riscontriamo una logica “open”, quando ad esempio i clienti dell’impresa sono chiamati ad agire anche come degli ambasciatori del prodotto e, se adeguatamente incentivati, contribuiscono a diffonderlo presso altri consumatori. Oppure possono agire in una logica peer-to-peer rendendo disponibili su internet le proprie conoscenze per aiutare altri consumatori a risolvere problemi di utilizzo del prodotto (come accade nei forum tecnici relativi a telefoni cellulari, computer, software, ecc.) Queste sono forme che le aziende in prima persona ma anche le comunità di consumatori spontaneamente promuovono e sollecitano sul web mettendo a disposizione di un pubblico estremamente ampio dei meccanismi di soluzione dei problemi che direttamente o indirettamente determinano l’incremento di valore dei beni a cui si riferiscono.
Tutto ciò per dire che le imprese italiane ancorché dei settori manifatturieri hanno una certa abilità o attitudine alla gestione di processi open, aperti, ancorché su attività tradizionali, legate alla produzione, alle operations. I processi nuovi che stiamo imparando ad usare hanno strutturalmente e funzionalmente alcune proprietà simili ai precedenti, ma si declinano su variabili nuove: innovazione, creatività, tecnologia su cui forse dobbiamo recuperare un po’. Esistono inoltre anche molte attività non necessariamente legate all’innovazione tecnologica in senso stretto, ma alla commercializzazione, alla comunicazione del prodotto, che determinano un valore aggiunto sul mercato e che non necessariamente richiedono una competenza tecnologica, da cui la necessità di perseguire una certa padronanza di alcune variabili soft, peraltro più accessibili di quelle tecnologiche, come appunto il marketing, la comunicazione e via dicendo. Credo che da questo punto di vista l’open innovation e più in generale il crowdsourcing siano una opportunità per un tessuto industriale di piccole e medie imprese. Credo inoltre che questa sia un’ottima opportunità anche per i lavoratori di un nuovo scenario professionale che si muovono a livello nazionale e internazionale attraverso piattaforme come InnoCrowding e che trovano la propria strada verso il proseguimento di una professione che non è innovativa in quanto tale, ma che segue percorsi innovativi nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.


Alexander M. Orlando

Presidente e CEO InnoCrowding Group
Grazie a tutti per essere intervenuti questo lunedì mattina e con un sole così bello fuori.
Arrivo dagli Stati Uniti e mi chiedo se l’innovazione può esistere o meno anche qui in Italia.
Da molto tempo tutte le grandi imprese italiane sono diventate nostri clienti. La open innovation è un pianeta, anzi è un continente. È l’ottavo continente del mondo. In altre parole si tratta di un’intelligenza superiore perché arriva dalle masse. In questa stanza esistono dei catalyst, Ivano Russo e Amedeo Lepore, dei champion come Antonio Prigiobbo e altre persone che hanno dato vita a qualcosa di nuovo sulla scia della open innovation. Queste persone portano quel valore aggiunto in grado di mostrarci concretamente cos’è la open innovation. Il tema principale, infatti, è che “noi” insieme siamo più intelligenti di ciascuno preso singolarmente. Questo è il primo fattore da cui deve partire la nostra riflessione. Basta un semplice dato: alle ultime presidenziali americane John McCain decide di servirsi di YouTube per la sua campagna elettorale, ma ci arriva troppo tardi e perde le elezioni. Due mesi mesi dopo, anche la Camera dei deputati italiana decide di intraprendere lo stesso esperimento degli americani. Nel mondo in generale, e in quello dell’innovazione diffusa in particolare, è possibile imbattersi in due diverse personalità: i leader, che aprono la strada alle innovazioni e i seguaci, che preferiscono seguire le orme dei pionieri. Il dato oggettivo, che ciascuno di noi sperimenta quotidianamente, è che la creatività esiste dovunque. Si parlava poc’anzi di lingua. È vero, la lingua è l’inglese perché l’inglese ci accomuna tutti. Illustrerò poi, con alcuni esempi pratici, come abbiamo usato la lingua a nostro vantaggio. Qualche giorno fa ho tenuto una lezione all’Università di Bari. La prima cosa che ho fatto, è stato cercare di vedere se la creatività esiste o meno nelle persone comuni. Il risultato è che dodici delle quaranta persone presenti in aula, benché timide e intimorite, hanno dimostrato di avere una creatività decisamente spiccata. Questo sta a significare che quando si stimolano le persone, la creatività finisce sempre per emergere.
Ognuno di noi ha un qualche problema di carattere finanziario: c’è chi, forse, ha bisogno di vendere più prodotti o è alla ricerca di un nuovo metodo per costruire un mondo diverso. Ogni problema ha una soluzione: è sufficiente imparare a scomporre e a frazionare il problema per cercare di capire come arrivare alla soluzione. A tale proposito, la open innovation non promette una soluzione a tutti i nostri problemi: se chiedessimo come trovare l’acqua sulla Luna, è certo che nessun solutore risponderebbe. La prima vera sfida è iniziare a pensare in modo diverso, controcorrente, proprio come in questo esempio. Due persone partono armate di sci, di zaino e di scarponi per scalare una montagna. A un certo punto compare un orso affamatissimo. Di fronte al pericolo, una delle due persone si libera dello zaino, toglie gli scarponi e si mette le scarpe da ginnastica. L’altro gli dice: “Scusa ma non sai che l’orso è molto più veloce dell’essere umano?”. “Sì”, risponde l’altro. “Io voglio solo fuggire da te, così l’orso ti prende per primo”. Questa scenetta umoristica ci aiuta a comprendere un concetto fondamentale: ciò che conta è capire come fare le cose prima degli altri, prima di venire sopraffatti. Ne parlano in tanti. Tanti sono i PR che si rivolgono alla nostra azienda. Sono tutti visibili in Rete. Il disegno che prima Antonio ha usato, è un’espressione che nasce dalla open innovation. Come fare di un’arte, l’arte delle parole, delle parole chiave. E queste sono le parole che vi indicano le discipline in cui si utilizzano il Crowdsourcing e la open innovation.
Dal crowdsourcing a InnoCrowding. Jeff Howe decide di scrivere sul giornale Wired la parola “crowdsourcing” che diventa immediatamente sinonimo di creazione della massa. Da quel momento si viene a costituire un vero e proprio popolo del social network, grande quanto un continente. Si vengono a formare tanti social network che nascono all’esterno delle aziende per arrivare al loro interno. Ho trascorso gli ultimi due anni con Innocentive, azienda che nasce da un’idea particolare di Eli Lilly, una casa farmaceutica che conta settemila persone, tutte molto intelligenti. Eli Lilly aveva un problema con una molecola. Si decide allora di pubblicare sulla Rete un challenge a cui viene assegnato un premio del valore di tremila dollari per fare in modo di ottenere una risposta in grado di risolvere il problema. A quel punto cosa succede? Qualcuno da un paese lontano, con un inglese appena decente, invia una formula matematica. Questa persona, che proviene da un settore di specializzazione opposto a quello della chimica e della medicina, risolve un problema che oggi permette a Eli Lilly di produrre medicinali particolarmente efficaci nel trattamento delle malattie polmonari. Così nasce Innocentive che si specializza nelle tematiche che riguardano la medicina, passando, negli ultimi due anni, anche al mondo del business. Si ritrova alle spalle persone altamente qualificate dal punto di vista scientifico e inizia a fare promozione. Ma comprende che deve anche avvalersi del contributo di altri social network. Da qui parte il vero e proprio blog di Innocentive. Ho sempre creduto che le PMI costituiscono la massa dell’innovazione. In realtà Google è nato da sole due persone e non da trentamila individui. E anche Outlook. Basti pensare che l’innovazione parte dall’individuo e non dalla grande azienda. Attenzione, quello che è successo è che bussando alla porta di ognuno di loro gli abbiamo proposto una cosa, un progetto pilota che era completamente innovativo. Partiva dal Crowd, ossia dalla “folla”, e ci ha dettato cosa fare. Innocentive ci ha permesso di adottare parte del loro sistema per adattarlo ai marchi commerciali delle piccole e medie imprese, alla “massa”. A questo punto abbiamo suddiviso il territorio in due zone: una in cui esistono aziende che hanno un coinvolgimento interno e un’altra in cui le aziende attingono dall’esterno e lo portano al loro interno. Philip Morris e P&G adottano da tempo il sistema della open innovation e si avvalgono di un vero e proprio processo di innovazione. Così come esiste un reparto finanziario, esistono anche un reparto e un direttore di open innovation. Esistono anche aziende che rivolgono richieste di innovazione altamente specializzate, ad esempio Philip Morris e P&G. Queste aziende partono dall’esterno verso l’interno e cercano in primo luogo di capire cos’è la massa, che cosa desidera, e solo in un secondo tempo innovano. In altre parole, creano il prodotto dalla massa all’azienda. Molti di voi, forse, non conoscono tutte le aziende che fanno innovazione, ma conoscono sicuramente eBay. Molte di loro sono simile a quelle che esitono anche qui in Italia. Sono piccole e medie aziende. Quindi, dopo aver esaminato la situazione di tutti e sei i continenti e portato avanti svariati programmi in diverse lingue, abbiamo capito che Henry Chesbrough aveva un’idea che si chiamava open innovation. Non era una pizza, non la si poteva mangiare, né toccare. Come facciamo a dare vita a un qualcosa che è completamente intangibile? È da lì che è partito il vero e proprio “dissecting”, ovvero il sezionamento del ciclo di sviluppo di prodotti/servizi. Abbiamo dichiarato che esistono tre fasi: la fase propedeutica, lo sviluppo del prodotto e il lancio del prodotto. A questo punto parte la nuova idea. Ognuno di noi può dire: voglio vedere se il mondo reagisce o meno. Può esserci un politico che dice: “voglio vedere se riesco ad essere famoso su Internet” o una persona come me che decide di arrivare a due milioni e mezzo. Come faccio a fare una cosa del genere?
Il secondo passo è quello di avere qualcuno che ci offre la creatività, ci propone idee a cui non abbiamo mai pensato, qualcosa di completamente innovativo. Da lì parte BerryQuest, un’idea brevettata da me e da altre tre persone che sviluppano il software per BlackBerry. Tutto è nato tramite LinkedIn e da uno scambio di idee su twitter, sui due tra i più famosi social network degli ultimi tempi. Ho inserito la mia richiesta, che era quella di voler fare qualcosa di completamente innovativo – BerryQuest appunto – ed è nata una vera e propria tribù di persone che hanno in comune una cosa: un cellulare chiamato BlackBerry o iPhone.
Da lì si passa poi alla pianificazione, al vero piano di lavoro. Come riesco a fare tutto? Come faccio a ottenere le informazioni che mi consentono di portare a termine questa impresa?
Se è un prodotto, voglio avere la possibilità di crearmi il prototipo, progettarlo, mostrarlo alle persone, toccarlo. Per venire incontro a queste esigenze abbiamo introdotto una bacheca elettronica delle tecnologie. Questo tipo di offerta mancava completamente dall’elenco dei servizi degli altri broker di innovazioni nostri concorrenti. La Tecnobacheca presenta nuove idee che sono allo stato puro, che richiedono di essere finanziate o adottate da altre aziende. Ma non solo: la bacheca contiene anche soluzioni tecnologiche e prototipi scartati dalle aziende richiedenti perché non conformi ai requisiti stabiliti dall’azienda richiedente al momento del lancio della richiesta di innovazione sul portale del broker. La nostra bacheca dispone di oltre 7400 tecnologie in vendita o concesse in licenza. BerryShout!, invece, è un vero e proprio sistema basato sul passaparola tramite telefono cellulare.
Quindi una sorta di twitter scambiato attraverso i cellulari. A livello geo-demografico, poiché a ogni persona che fa parte della tribù di BerryShout! viene assegnato un profilo speciale, il passaparola è qualcosa di immediato. Al termine di questa catena il prodotto è pronto: occorre solo trovare qualcuno disposto a commercializzarlo.
Questa è la parte più semplice, ma manca la parte principale: i soldi. Come faccio, io piccola azienda, a fare qualcosa del genere?
Negli Stati Uniti è molto diffuso il Crowdsourcing perché permette due cose: la prima è che le masse contribuiscono alla realizzazione di progetti per i quali vale la pena contribuire.
Quanti di voi potrebbero pagare un caffè qui? Nessuno? È un euro, giusto? Ma se noi lo chiediamo a 400 mila persone quel caffè diventa qualcosa di molto più grande.
La Fondazione Rockefeller ha dato la sua disponibilità, dicendoci: “preparateci il contenuto, noi vi finanziamo”.
Se questo progetto viene accettato dalle masse può essere portato avanti e diventare qualcosa di nuovo? Negli Stati Uniti non esiste l’abitudine di guardare un progetto, decidere di dare un qualche aiuto per avviarlo e vedere fin dove si arriva.
In Inghilterra, quando una persona o un’azienda va in bancarotta, per sei anni non può riaprire una nuova attività. Negli Stati Uniti se una persona ha fatto bancarotta almeno tre volte, i Venture capitalist non lo ascoltano. È fondamentale capire quali sono i problemi. Se si inquadra il problema fin dall’origine si può comprendere ciò che accadrà dopo.
In primo luogo occorre definire l’obiettivo.
Obiettivi quali procurarsi un nuovo computer o crearsi un nuovo Apple non sono considerati obiettivi validi nella open innovation: qui esiste frammentare il problema, scomporlo nei minimi particolari. Si tratta di un obiettivo ben preciso, non di aggregare il prodotto ma di scomporre il problema che intendiamo risolvere.
Occorre anzitutto individuare la richiesta di soluzione/innovazione: ciascuno di noi può subentrare in qualsiasi fase della open innovation e presentare la propria richiesta per una nuova idea. Oppure, sono un Venture capitalist e voglio vedere se vale la pena investire in un prodotto. Si passa all’istituzione di un premio: il premio è molto importante perché, non dimentichiamolo, nessuno mai ci darà un’idea se il premio in palio non equivale a ciò che si offre. È quindi inutile rivolgere richieste di soluzione/innovazione ambiziose mettendo in palio solo 100 dollari. Nessuno risponderebbe alla nostra richiesta. L’abbiamo già visto, l’abbiamo già testato.
Si passa poi alla scomposizione della richiesta in diverse fasi. Analizziamo attentamente e svisceriamo il contenuto della richiesta per estrapolare le parole chiave e le tecniche in modo che chiunque possa capire di cosa si tratta. Infatti, uno dei principi della open innovation è quello di rivolgere la richiesta di soluzione/innovazione non agli esperti di quel dato settore, ma a persone che operano in aree collaterali e questo per stimolare in loro il pensiero creativo, per farli pensare in modo completamente innovativo.
A questo punto, il testo della richiesta viene pubblicato online sul nostro portale – senza alcuna indicazione o riferimento all’azienda richiedente -e da lì passa direttamente all’interno di una stanza virtuale riservata in cui il Problem Solver, ossia la persona che si propone di risolvere il problema, inizia a lavorarci.
Quando il testo della richiesta di soluzione/innovazione (Contest) viene approvato dal cliente è privo di qualsiasi riferimento che possa rimandare all’identità del richiedente. Si inviano le richieste ai solutori selezionati per lavorare alla richiesta. In tutte queste fasi viene garantita la massima protezione dell’identità di Problem Solver (i solutori) e Solution Seeker (i clienti).
Uno dei problemi originati dall’attività in Rete è proprio quello di capire come stabilire chi per primo propone una soluzione, quindi di proteggerne l’identità. Il solutore accede inizialmente alla parte generale della richiesta che contiene solo una descrizione generica del problema, ad esempio che il soggetto richiedente è alla ricerca di un nuovo fiore. Da qui il solutore o i solutori passano alla seconda fase che prevede la firma di un accordo di riservatezza che consente agli interessati di accedere a informazioni riservate e più precise in relazione alla richiesta contenuta in una stanza virtuale privata. Solo a quel punto uno o più solutori decidono di lavorare o meno al progetto, perché in questa fase hanno raccolto tutte le informazioni necessarie per comprendere l’esatta natura della richiesta e indicare di quale materiale hanno bisogno per procedere. Il Solution Seeker (richiedente) può decidere di utilizzare più solutori per la sua richiesta e di suddividere tra più persone il premio in palio alla scadenza della presentazione della proposta. In questa fase giungono le proposte di soluzione/innovazione dei solutori che possono andare da 0 a 27.000 risposte per una sola richiesta. Quando sono state raccolte tutte le risposte dei solutori ha inizio la fase di selezione delle proposte durante la quale occorre stabilire se le soluzioni pervenute valgono la pena di essere esaminate.
A quel punto il Problem Solver e il Solution Seeker si conoscono personalmente. Forse penserete che questo faccia venire meno il segreto e tradisca il principio di riservatezza, ma non è così. Non esiste un segreto nella open innovation. Ciò che esiste è la motivazione dei solutori e dei soggetti richiedenti.
Ma torniamo a BerryShout! In inglese blackberry sono le more, frutti che stimolano la creatività. Si dice, infatti, che se un bambino mangia le more la mattina, diventa più intelligente. Con il servizio BerryShout! si chiede alle masse di esprimere la loro opinione e rispondere a mini-sondaggi mediante l’invio di un sms della lunghezza di 162 caratteri. Si tratta di un sistema molto semplice. Ecco alcuni esempi di quello che possiamo fare con il servizio BerryShout!: cercare un nuovo slogan, un nuovo nome o lanciare una richiesta demografica. Ad esempio, sono un produttore di motociclette e intendo chiedere a persone di età compresa tra i 32 e 35 anni che guidano una moto e che amano la musica jazz di trovare un nuovo slogan. La persona che appartiene alla BerryTribe decide di dare il suo contributo direttamente in Rete. È il primo social network a pagare gli utenti che partecipano dando il loro contributo. Il 90% dei membri della tribù fanno business o sono persone che viaggiano per lavoro.
BerryQuest! è nato per l’esigenze comuni. Nella prima fase di test hanno risposto 500.000 persone e il server è andato in tilt. Ci aspettavamo, infatti, una risposta da parte di 50.000 persone e non di 500.000! Avevamo chiesto un nuovo nome per Nike e il premio era di 10.000 dollari. Il mondo è letteralmente impazzito. Quando arrivano le risposte, il server BlackBerry analizza tutte quelle pervenute, inizia a condurre analisi matematiche per individuare il nome più usato. Ma cosa succede nel caso in cui due o più persone trovano lo stesso nome? Chi vince? Si aggiudica il premio chi invia per primo l’sms contenente la risposta selezionata. A ogni partecipante viene dato un BerrySeed: si tratta di semplici semi – i seed, appunto – che, una volta accumulati, possono essere riscattati sotto forma di premi di varia natura: computer, telefoni, vacanze, ecc. Tutto questo esiste solo grazie al social networking. Le persone che hanno partecipato a questo tipo di applicazione sono tutte invisibili e fanno tutte parte della open innovation. Ma come si fa ad adottarla in azienda? Se l’innovazione non parte dall’interno dell’azienda non si può passare al livello successivo. Il successo che si ottiene dalla pubblicazione sul portare della richiesta è qualcosa di tangibile: può consistere nell’ampliamento del mercato, con la possibilità di produrre più beni e servizi e, quindi, più prospettive di lavoro. Il valore che offriamo è proprio la diversità dei solutori. Il processo di innovazione ha inizio dal singolo reparto aziendale, passa poi al secondo livello, quello che vede coinvolta tutta l’azienda e, da lì, passa alle risorse esterne all’azienda (possono essere un consorzio, un pannello di esperti, le università, i consulenti che conosciamo, ecc). Se non giungono risposte soddisfacenti da questa cerchia di risorse immediatamente esterne all’azienda, InnoCrowding si occupa di trovare un gruppo eterogeneo e diversificato di professionisti e appassionati da cui ottenere nuove risposte, quelle che ci aspettiamo, ma anche quelle inattese. Ciò che abbiamo presentato oggi è un progetto che ha già due anni. L’1% dei nostri solutori arriva dall’Italia. Diversi mesi fa “La Repubblica” aveva chiesto a una ragazza di Bologna che ha risolto un problema molto importante perché avesse deciso di partecipare alla soluzione del contest. La risposta è stata che non lo ha fatto solo per una motivazione economica, ma anche per acquisire notorietà.
Il motivo per cui oggi sono qui è perché tramite la open innovation e i social network ho conosciuto Antonio da lì è partito un “passaparola” attraverso il Web.
La open innovation non guarda solo al prodotto o al metodo per stimolare le vendite, ma è anche un catalizzatore. L’ultimo esempio che voglio fare è quello di Cordova, Alaska. Nel 1989 Exxon Valdez fa fuoriuscire oltre 10 tonnellate di petrolio nei mari dell’Alaska. Per 10 anni i maggiori scienziati e i più illustri accademici non sono riusciti a risolvere il problema di come dividere il petrolio dall’acqua, perché l’acqua ghiacciava. Jim Davis, un muratore, crea e trova la soluzione. La scrive su un pezzo di carta e la manda via fax. È riuscito a risolvere un problema che ha afflitto e interrogato tante persone per 10 anni, trasferendo semplicemente ciò che aveva appreso dalla sua professione di muratore (separava con un vibratore l’acqua e il cemento facendole diventare fluide). Ogni giorno ci sono problemi, vecchi e nuovi. I siti della open innovation sono favolosi e offrono da 5.000 a 250.000 mila dollari di premi. Ho letto stamattina il giornale che diceva che gli stipendi in Italia sono i più bassi. Sono bassi ma c’è la possibilità per tutti noi di esplorare una terra che è ancora vergine: quella dell’innovazione diffusa. Molti di voi credono che solo con particolari titoli di studio e un grande bagaglio di esperienza si possa accedere alla open innovation. Credo, invece che chiunque indipendentemente dalla razza, dalla professione, dall’età e da dove vive è capace di insegnare qualcosa di nuovo, di proporre soluzioni che non conosciamo.
Non fermiamoci qui. Abbiamo fatto una presentazione fantastica. Quanti di voi avranno un profilo visibile? Quanti di voi inizieranno a parlare la lingua della open innovation, l’inglese? Anche se molti credono di parlare l’inglese e di capirlo, almeno per iscritto, ci si imbatte spesso in richieste a tal punto specialistiche che diventa difficile capirne il contenuto e quindi fornire una soluzione adeguata. Per risolvere il problema della lingua, InnoCrowding si avvale delle competenze di esperti linguisti che hanno il compito di tradurre il contenuto delle richieste di innovazione da una lingua all’altra.
Oggi è la “tempesta perfetta”, è il momento propizio per abbracciare la open innovation: è in atto una crisi economica e la creatività è sfruttata al massimo. Basta solo capire come arrivare all’open innovation e come utilizzare i social network per poterla attivare. Vi invito, quindi, a rivolgermi le vostre domande sulla open innovation, anche quelle che ritenete più strampalate.